Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.
(La Duchessa in “Alice nel paese delle Meraviglie”)
Sono nata il 14 maggio 1984, da madre italiana e padre nigeriano.
Penso di essere stata uno dei primi “esemplari” di meticcio in Veneto; questa sorta di primato credo possa, in un certo senso, spiegare l’intolleranza, i pregiudizi e la solitudine che hanno caratterizzato la mia infanzia e la mia pre-adolescenza.
Mio padre faceva il fotoreporter, ma a causa del suo daltonismo dovette ben presto rinunciare.
La fotografia, sin da quando ero bambina, per me rappresentava un problema. Essa era l’oggetto per cui i miei genitori litigavano, la cosa per cui a casa non c’era mai abbastanza denaro. Odiavo la fotografia e, mentre udivo i miei genitori litigare, promettevo sempre a me stessa che mai avrei intrapreso questa strada. Purtroppo col tempo ho imparato che ci sono forze, dentro di noi, che non possiamo comandare. Ci sono istinti, pulsioni e bisogni che se non vengono soddisfatti possono ucciderci, farci implodere.
Il primo contatto “forzato” con la fotografia lo ebbi a 14 anni, quando mi iscrissi (forse inconsciamente, nella speranza di riuscire a lasciarmi andare alla mia natura), mi iscrissi a un corso di diploma superiore in Comunicazione Pubblicitaria, dove la fotografia era una materia portante del corso. Grazie a lui, al rigore già professionale che ci impose per quei 5 lunghi anni, riuscii a fare pace con me stessa, pensando che forse, un giorno, se fossi stata brava, davvero brava, avrei potuto fare quello che mio padre non aveva fatto; avrei saputo gestire me, il mio denaro, il mio tempo e i miei progetti.
Ma il vero salto di qualità avvenne mentre frequentavo il corso di laurea in Comunicazione Pubblicitaria, a Urbino. Lì, finalmente lontana dalla mia famiglia, dal peso del giudizio e delle opinioni, riuscii finalmente a lasciarmi andare. Trovai la forza di chiedere in regalo a mia nonna una macchina fotografica. Il momento in cui la presi in mano fu il momento in cui percepii per la prima volta cosa ero realmente. Capii che la mia vita sarebbe cambiata totalmente; io sarei cambiata totalmente. Cominciai a chiedere agli amici se volevano posare per me; cominciai a collaborare con un gruppo musicale che mi diede carta bianca su qualsiasi cosa (ancora li ringrazio per questo), poi, come si sa, da cosa nasce cosa. Nel 2007 sbarcai a Milano, dove vivo tuttora. Venni qui per frequentare un corso di laurea specialistica alla NABA, anche se, in verità, era l’ultima cosa a cui pensavo.
La cosa che ho sempre trovato difficile, nella mia vita, è quella di riuscire a sopravvivere a me stessa. Non sono cresciuta in un contesto familiare “normale”. Ho sempre dovuto tenere a bada i miei istinti, le mie passioni, perché non erano consone all’aria che si respirava in casa mia. Ho sempre saputo che il mio destino sarebbe stato, in un modo o nell’altro, legato a qualche forma artistica. A 15 anni cominciai a tatuarmi, falsificando la firma dei miei genitori. Ho 14 tatuaggi, metà dei quali estremamente visibili.
Per me la fotografia è un modo per smettere di soffrire. E’ una necessità. Da qui deriva la natura della mia ricerca; le emozioni umane, quelle che io provo come donna (di colore, di 1.86cm di statura, tatuata, acculturata e alle volte bipolare), come figlia, come la madre che sarò, e la professionista che sono. Come essere umano, come animale, come oggetto senziente.
E’ difficile, lo ammetto, tentare di raccontare una storia che non è fatta di parole, ma di silenzi. E’ difficile avere la forza di continuare a guardare il mondo con il cuore, quando sembra che le emozioni stiano scomparendo dalla superficie di questo pianeta. La mia ricerca non si sviluppa in superficie, ma in profondità. Io scavo, continuamente, dentro me stessa e dentro le altre persone. Talvolta riemergere da quelle “cave” emozionali e sensoriali è difficile; ma quanto più riesco ad andare affondo tanto più è prezioso ciò che porto in superficie. Durante il mio percorso di studi, fatto per la maggior parte di semiotica, comunicazione, psicologia e sociologia, ho avuto modo di capire la società, le persone e le emozioni/pulsioni che governano e muovono il mondo. Ho tentato di capire, attraverso gli strumenti teorici in mio possesso, come cogliere e comunicare con le immagini ciò che spesso non si riesce a dire, tantomeno fotografare.
Poetica
L’eco del suono di un piano scordato
all’interno di una casa immensamente vuota.
Ecco cosa voglio esprimere nella mia fotografia.
É qualcosa che non si può vedere, ma solo sentire.
Mi chiamo Angela Loveday,
Studio fotografia da 12 anni. Sono dottoressa in sociologia e laureanda in design della comunicazione. Aspiro ad una terza laurea in Psicologia. Artista per scelta, e vocazione.
Fotografo la memoria, e l’attesa.
Fotografo emozioni che abbiamo smesso di provare, e sogni che abbiamo abbandonato.
Fotografo me stessa,
Filtrata attraverso l’esperienza del mondo,
e il mondo, attraverso le mie emozioni.
Così, nell’accezione di una neo-intuizione romantica (dal tedesco “Anschauung”), uso la fotografia per ridare al mondo, ai soggetti, un universo intimo, che si pone in netto contrasto con il diffuso approccio voyerista, in cui non vi è più rispetto per la realtà e per gli aspetti intimi delle singole individualità sociali.
La mia verità, attraverso l’illusione fotografica, crea un paradosso, unendosi a sua volta con la verità del mondo, al suo segreto irradiarsi nell’apparenza, senza restarvi mai prigioniera.
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